Nel freddo inverno del Minnesota, il 24 maggio 1941, nasceva Robert Allen Zimmerman, figlio di immigrati ebrei dell’Europa dell’Est. Nessuno poteva immaginare che quel ragazzo dai ricci ribelli avrebbe rivoluzionato la musica e la poesia del Novecento. Lasciò l’università, cambiò nome, prese un autobus per New York e cominciò a frequentare i locali del Greenwich Village. Cercava Woody Guthrie, ma trovò sé stesso.
Bob Dylan divenne in breve il cantore dell’America inquieta, il profeta della controcultura. Con una chitarra, un’armonica e una voce aspra, scrisse inni immortali come Blowin’ in the Wind, The Times They Are A-Changin’, Like a Rolling Stone. La sua musica era poesia civile: parlava di diritti, guerre, ingiustizie, e lo faceva con parole taglienti come lame.
Ma Dylan era anche un maestro della fuga. Rinnegò l’etichetta di “voce della sua generazione”, imbracciò la chitarra elettrica tra i fischi di Newport, cambiò pelle, sonorità, immaginari. Divenne un menestrello rock, un poeta solitario, un bluesman malinconico. Nel 2016 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura: un segno che la canzone può essere alta arte.
Bob Dylan è ancora oggi in tour, in eterno movimento. Perché, come canta lui stesso, “non serve un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento”.
Nel 1971, Dylan fu invitato a scrivere la canzone ufficiale per il compleanno dei 70 anni di George Jackson, militante dei Black Panthers ucciso in prigione. Scrisse “George Jackson” in pochissime ore, la registrò con un accompagnamento scarno e la pubblicò come singolo: un atto politico e personale, ignorato dalle radio americane per il suo contenuto.
ICONICOMIX lo celebra
perché ha trasformato la canzone in un’arma intellettuale e poetica. Ha influenzato generazioni di artisti, ha detto verità scomode, ha elevato la parola a forma d’arte senza tempo. Dylan è un ponte vivente tra folk, rock e letteratura.