Charles Bukowski ha fatto della vita ordinaria un’epopea brutale, disillusa e affilata. Nato in Germania nel 1920 e cresciuto a Los Angeles, è stato il poeta degli emarginati, il cantore degli ubriaconi, dei perdenti, dei disperati che popolano il ventre molle dell’America.
Per decenni ha vissuto tra camere ammobiliate, lavori da quattro soldi e litri di alcol. Ma scriveva. Con rabbia, onestà e una lucidità tagliente, ha prodotto racconti, poesie, romanzi e articoli, dando voce a chi voce non ha. Il suo stile era sporco, diretto, antiaccademico. Una letteratura che non chiede permesso, entra, urla e resta.
Nel suo alter ego letterario, Henry Chinaski, ha condensato tutta la sua poetica: brutale ma tenera, nichilista ma autentica. Non cercava la bellezza, ma la verità. E la trovava nelle sigarette, nei bar, nelle notti insonni, nei gatti, nella solitudine, nella disillusione.
Odiato dai benpensanti, venerato da chi non si è mai sentito rappresentato, Bukowski ha rotto le regole della poesia per renderla viva, feroce, umana. È stato il poeta maledetto del XX secolo. Non per posa, ma per necessità.
Nel 1969, Bukowski accettò un’offerta da Black Sparrow Press per lasciare il suo lavoro alle Poste e dedicarsi solo alla scrittura. Scrisse il suo primo romanzo, Post Office, in meno di un mese, con l’incipit: “Mi dimisi dal lavoro alle poste e divenni uno scrittore ubriaco.”
ICONICOMIX lo celebra
Perché ha distrutto i muri tra poesia e realtà, tra letteratura e vita vissuta.
È diventato la voce di chi sta ai margini, senza filtri, senza vergogna. Bukowski ha fatto della verità cruda un’arte.